In che modo era stato travolto? Lei aveva acquistato una sorta di potere con tutto quanto faceva, tutto quanto diceva, cosicché lui si ritrovava inevitabilmente a pensarla. Si chiedeva se questo fosse naturale. Tutti gli psichiatri si ritrovavano prigionieri di una paziente ipersensibile? Era forse causato dall'inesperienza? Perché i suoi sentimenti venivano coinvolti ogni volta che cercava di analizzare che cosa fare? Era il suo orgoglio ad essere ferito? La sua personalità di maschio? Improvvisamente le motivazioni erano divenute sospette e non trovava pace al di fuori della confusione.

Forse il problema era più profondo, pensò Sneidermann. Il problema era nella natura della stessa psichiatria. Era così fragile, così astratta. Agli esseri umani soffocati dall'orrore e dal senso di colpa vengono gettati salvagenti fatti di parole brillanti. Carlotta aveva bisogno di un essere umano nel quale credere, da amare, al quale appoggiarsi. Non era un pezzo di macchina da riparare. Era molto più complicata, un vero groviglio di cose effimere, incorporee e mortali.

Lo psichiatra sembrava così lontano dall'essenza della vita. I pazienti trascorrevano l'intera esistenza in ambienti controllati. Psiche sconvolte e personalità deformate in realtà non erano mai curate in profondità. Era tutto facciata...: i sommessi discorsi dei medici, le loro teorie brillanti, le loro scintillanti costruzioni teoriche. In realtà, galleggiavano sopra la vita come pallide farfalle. I pazienti come Carlotta si trovavano all'inferno.

Fra i ginko cinesi, Sneidermann scorse una sagoma familiare che arrivava dalla clinica, che sostava fra i gigli e che lo vide. La figura avanzava lentamente.

«Gary», disse il dottor Weber sottovoce, quasi triste, «le dispiace se mi unisco a lei?».

«No certamente».

Il primario sedette accanto al giovane medico. Il parco era quasi vuoto. Alle loro spalle l'ombra era profonda e fresca dove i salici piangenti abbandonavano i lunghi rami dentro gli stagni.

«Una brezza piacevole», notò Weber.

«Davvero molto», convenne l'altro.

Ci fu un lungo silenzio nel corso del quale i due uomini sembrarono assaporare la freschezza del luogo. Sopra di loro gli uccelli svolazzavano tra gli alberi.

«Viene qui sovente?» chiese il primario.

«A volte».

«Io ogni volta che voglio stare solo. C'è qualcosa che mi attira in questa vegetazione».

«Sì. È molto bella».

Ci fu un altro lungo silenzio. Due bambini correvano sul prato, ridendo. Poi sparirono.

«Ha mancato a qualche seminario», disse gentilmente il primario.

«Non mi sentivo molto bene».

«Ha avuto gli appunti?».

«Sì».

«Forse dovrebbe prendersi una vacanza».

Sneidermann mise le mani in tasca e si appoggiò indietro. Si stava bene seduti vicini al dottor Weber, senza parlare.

«Suppongo che abbia qualche consiglio da darmi», disse.

«Per niente, Gary. È qualcosa che deve risolvere da sé».

«Ma se dovesse darmi un consiglio, quale sarebbe?».

Weber sorrise. Allentò la cravatta e slacciò il primo bottone della camicia offrendo il collo alla brezza primaverile. Delle ombre gli chiazzavano le braccia.

«Sarebbe quello di prendersi una vacanza».

«Non capisco come mai non sia ritornata. Proprio non riesco ad immaginarlo».

«Ha colto qualche punto essenziale di grande ansietà. Ha provato a mettersi in contatto con lei?».

«Tre volte. Una non era in casa e le altre due non ha voluto venire al telefono. Suo figlio mi ha detto che stava bene. Che non si era mai sentita così in forma e che non sarebbe ritornata».

«Dunque l'ha persa».

Sneidermann sprofondò in un silenzio imbronciato. Durante le ultime settimane era divenuto sempre meno comunicativo, come se ponderasse pensieri che trovava difficile esprimere persino al dottor Weber.

«Ho meditato molto. Per che cosa mi sono dedicato alla psichiatria? Per arricchire? Per essere famoso?».

«Non è vergognoso essere ambiziosi».

«Ma non è tutto qui. Le relazioni umane... io... io proprio non le capisco. Voglio dire, quando ne sono coinvolto».

Weber annuì lentamente.

«Quando cessa di essere un medico», commentò, «lei si comporta come una persona qualsiasi».

«È così che è accaduto?» chiese Sneidermann, tranquillo ma serio.

«Ha perso la sua prospettiva, Gary. Succede».

Sneidermann avvertì una emozione gonfiargli il petto, una emozione che sapeva bene Weber avrebbe saputo analizzare. Ma non era quanto voleva. Aveva bisogno di condividere con qualcuno i suoi sentimenti.

«Non sono mai stato innamorato», confidò. «Voglio dire, i miei rapporti con le donne sono stati... io... mi chiedo, è così che accade? Proprio non lo so».

Weber pensò a lungo prima di pronunciarsi.

«Lei è più che un allievo per me, Gary», disse sommesso. «L'ho sempre considerata un collega. Se così posso dire, un amico».

Sneidermann era profondamente commosso, incapace di profferire parola.

«E desidero parlarle da amico, non da superiore. Propongo che si prenda tempo. Tempo per riesaminare quanto le sta succedendo. Tempo per liberarsi dalle emozioni».

Sneidermann si agitò sulla panchina. Stava arrossendo.

«Vi sono zone della sua personlità che non conosce», proseguì Weber. «È tempo di scoprirle, di studiare».

«Ha ragione».

«Per quanto riguarda Carlotta, penso che si trasformerà in un caso tormentato, ma dimenticato».

Sneidermann si morse il labbro, ancora confuso.

«È offeso?» chiese Weber.

«No, no di certo. Soltanto che mi è difficile abbandonarla. Voglio dire, così com'è».

«Vi sono molti pazienti che non finiscono la cura».

«Lo so. Ma lei è speciale per me».

Il dottor Weber guardò Sneidermann.

«La lasci perdere», disse, cortese e franco. «Non ha scelta. Professionalmente e, se così posso dire, personalmente».

Il giovane rimase in silenzio. Weber sperò che quelle parole avessero fatto breccia.

 

Sneidermann guidava verso la West Los Angeles nella vetusta MG bianca. Trovò Kentner Street senza molta difficoltà e parcheggiò in fondo alla via. Alla luce del giorno, la casa di Carlotta sembrava più piccola di quanto rammentasse, ma molto più pulita, più luminosa e si inorgogliva di un giardinetto con delle rose in piena fioritura. Rimase fermo per un momento, chiedendosi se avviarsi verso la porta. Poi notò parecchie altre auto parcheggiate davanti alla casa.

Si avvicinò e bussò leggermente. Udì delle voci nell'interno. Billy aprì. Sneidermann sorrise affabilmente, sebbene fosse nervoso. Vide il viso del ragazzo corrugarsi in un'espressione preoccupata. Tutto in una frazione di secondo.

«Ciao, Billy», disse. «Ti dispiace se parlo a tua madre?».

«Non credo che sia...».

Dall'interno comparve la figura di Carlotta.

«Chi è?».

Il ragazzo si voltò con un gesto di impotenza.

«Posso entrare?» chiese Sneidermann.

«Se-e, certo», disse Billy.

Il giovane medico si fece avanti. Carlotta lo stette a guardare dal soggiorno. Dietro di lei due giovanotti manipolavano congegni elettronici con minuscole pinze e cacciaviti. Lei sembrò irrigidirsi e il viso annuvolarsi come colto da ricordi remoti, poi da qualcosa di terribile. Infine riprese un'espressione ambigua, Carlotta si fece avanti. Si muoveva leggera, con grazia ed il viso era trasformato da una fresca vitalità.

«Buongiorno, dottor Sneidermann», disse sommessa, con semplicità.

Stese la mano, che lui prese. Sorridendo meglio che poteva. Per Carlotta era insolito vederlo fuori dalla clinica, come se un medico non avesse nessun contatto con la realtà, ma fosse soltanto una sorta di fantasma bianco che svolazzava di sala in sala.

«Buongiorno, Carlotta», disse gentilmente. «Ha uno splendido aspetto».

Lei non seppe che cosa rispondere. Era confusa. Egli poté cogliere una certa agitazione nello sguardo. Un'allegria che non aveva mai visto nel suo studio. In un certo modo appariva più femminile, più padrona di sé, più sicura nella propria casa.

«Ero preoccupato», disse con semplicità.

«È molto gentile da parte sua. Come vede, sto bene».

«Sì, ma ha smesso di venire. Credevo...».

«Non mi sono mai sentita meglio, dottor Sneidermann».

Si sentì chiaramente non desiderato. Leggeva nei suoi occhi quanto fosse lontano da lei. Billy li osservava, domandandosi che cosa ci fosse sotto la ingannevole semplicità di quelle parole.

«Le dispiace che sia venuto?» chiese.

«No», rispose lei esitante. «Perché dovrebbe. Entri».

Lo fece accomodare. La casa era pulitissima, le finestre aperte ed il sole dorava il tappeto. Una fresca brezza soffiava dal giardino portando con sé il profumo di erba e foglie calde. Lei sembrava imbarazzata ad averlo in casa, confusa nel vederlo, diciamo, in borghese, invece che con il camice bianco.

«Le presento alcuni suoi colleghi», annunciò lei. «Mr. Kraft e Mr. Mehan. Vengono dall'università».

Sneidermann strinse la mano forte e calda del primo e quella più fiacca del secondo. Avvertì una punta di gelosia, che soffocò subito. Almeno lei non era sola, pensò con sollievo.

«Non credo di avervi mai incontrati», disse Sneidermann.

«Siamo del dipartimento di psicologia», spiegò Kraft.

«Psicologia clinica? Col dottor Morris?».

«No. Un'altra divisione».

Sneidermann trovò strano che non precisassero con chi lavorassero. Improvvisamente ebbe la vaga percezione di qualche cosa che non gli piaceva. Gli venne in mente, proprio come lui non avrebbe dovuto essere lì, che anche loro fossero certamente in un'analoga situazione. In ogni caso, c'era qualche cosa di strano. E che cosa ci facevano tanti apparecchi neri e dei treppiedi nella casa di Carlotta?

«State prendendo delle foto?» chiese.

«Sì», rispose Kraft vivacemente. «Abbiamo fotografato la camera ed il corridoio durante la notte».

«Per quale ragione?».

«Per averne l'immagine, naturalmente».

«È una pellicola infrarossa», aggiunse Mehan, con grande confusione di Sneidermann.

Carlotta rise. Evidentemente era in rapporti eccellenti coi due psicologi.

«Hanno eseguito ogni sorta di prove», disse entusiasta. «Vuole vederle?».

«Sì, mi piacerebbe. Mi piacerebbe moltissimo».

Sneidermann si costrinse a non avvertire nessuna sorta di gelosia professionale. Essi lavoravano per aiutare l'ammalata e capì che non era affar suo l'interferire.

Seguì Kraft nella camera, fermandosi guardingo davanti al groviglio di fili. Il locale era un ingombro di scatole e tubi.

«È Gene che ha costruito l'intera apparecchiatura», spiegò Mehan.

«È soltanto un po' di confusione con quello che avevo a disposizione», ribatté questo con modestia.

«È impressionante», replicò Sneidermann, apprezzando l'abilità necessaria per montare un simile sistema elettronico. «A che serve?».

«Ebbene», spiegò Kraft. «In sintesi, è il tentativo di integrare una serie di dati di variazioni di luce... con certi cambiamenti che si verificano nell'atmosfera. Un nastro registratore incamera dati per il computer collocato dietro quella fila di commutatori. In questo modo, speriamo di scoprire quali mutamenti fisici coincidono con il verificarsi di avvenimenti paranormali».

Sneidermann avvertì un gelo. Di colpo la realtà veniva respinta. Guardò più attentamente il giovanotto davanti a lui, vestito con tanto buon gusto e con gli occhi neri che sprizzavano entusiasmo come un boyscout all'incontro col primo pellerossa stregone.

«Paranormale?... vuol dire fisico...?» chiese lentamente Sneidermann.

«Sì, naturalmente. Per che cosa crede che sia tutto questo...».

«Il signore è il dottor Sneidermann», interruppe Carlotta. «Avrei dovuto dirvelo. Frequentavo il suo studio».

Kraft guardò incerto il nuovo venuto.

«Non afferro».

«Sono un interno del reparto psichiatrico».

Avvertì un'immediata ostilità da parte sia di Kraft che di Mehan. In un istante parvero chiudersi come ostriche.

«E voi?» chiese Sneidermann.

«Gliel'ho detto. Siamo del dipartimento di psicologia», ripeté deliberatamente Kraft.

«E studiate che cosa?».

«Che differenza fa?».

«È una domanda amichevole».

«Stiamo studiando con la dottoressa Cooley. La conosce?».

«No. Ma vi assicuro che lo farò al mio rientro».

Cadde un silenzio inquietante. Carlotta intuì l'improvvisa freddezza che era sorta fra di loro. In qualche maniera Sneidermann provocava sempre ostilità negli altri.

«Gradirebbe un caffè, dottore?».

Si voltò a guardarla. Chiaramente era dalla loro parte. Sapeva di doversi comportare il più educatamente possibile, ma internamente ribolliva di rabbia.

«Sì, grazie».

Lo accompagnò in cucina, riempì due tazze poi lo precedette verso il portico esterno. Mehan e Kraft tornarono tranquillamente al loro lavoro.

Sneidermann sorbì il caffè. Carlotta sedette sulla ringhiera di legno, senza guardarlo. Mai gli era stata così vicina. E mai lui si era sentito così distante. Mai aveva avvertito un contatto con quella elusiva ed esasperante paziente che contemporaneamente era tanto fragile.

«Perché non ritorna a farmi visita, Carlotta?» chiese gentilmente. «Perché non mi vuole parlare nemmeno al telefono?».

Ancora non lo guardava, ma osservava invece le api indaffarate nel giardino. Il sole le baciava la fronte, rendendole gli occhi lucenti, quasi con una sfumatura di argento. Strano, come mutava il colore di quegli occhi, pensò lui. A volte potevano essere neri come il carbone.

«C'è qualcosa che deve capire, dottor Sneidermann», esordì la giovane dopo un certo silenzio. «Ora mi sento molto bene. Non ho più attacchi. Non c'è ragione di venire».

Conversare con lui evidentemente la imbarazzava. Era educata per necessità e desiderava che se ne andasse.

«È grazie a quei due scienziati che ho potuto finalmente ritrovare la pace. Essi sono stati in grado di provare...».

«Provare?».

«Sì. Sono in possesso di fotografie. Hanno visto», spiegò ritornando finalmente a guardarlo, con gli occhi lucidi, quasi ridenti, come schernendolo, pensò. «Non mi crede? Loro sì. Hanno visto l'ultima parte di lui».

Lo guardò in modo strano. Come godendo della sua sconfitta. Forse era la rivincita per quanto aveva sofferto nel suo studio.

«Carlotta», ribatté, «ha qualche idea di chi siano? Di quale sia la loro qualifica?».

«Sono scienziati», rispose ostinata.

Sneidermann fece una smorfia.

«Mi fa sentire come se fossi di nuovo nel suo studio. Eccoci qui, cercando di bere un caffè, e lei mi sottopone ad un fuoco incrociato».

«Rammenta il libro che le ho mostrato? Pipistrelli e draghi. È questo che quei due vanno cercando. Fantasie. È questo che lei ha deciso che le sarà di aiuto?».

Carlotta cercò di controllarsi, mentre continuava a bere il caffè. Guardò lontano e la brezza gentilmente le muoveva i capelli sulle tempie. Lui non l'aveva mai vista così dolce e così graziosa.

«Sono affari miei, dottor Sneidermann», disse infine.

«E Jerry?».

«Non lo scoprirà».

«Ne è sicura?».

«Positivo. Mi hanno liberata di quella cosa».

Sneidermann si sentì adirato. Si vedevano Kraft e Mehan lavorare dietro la finestra del soggiorno. Ebbe l'improvviso impulso di correre dentro e fare a pezzi mappe e grafici.

«E Billy?».

Lo guardò con sospetto.

«Che cosa Billy?».

«Che cosa pensa di tutto questo?».

«È completamente dalla loro parte. Ha visto ciò che hanno fatto».

Almeno questo era coerente, pensò Sneidermann. Tutti stavano coltivando un'illusione. Capì improvvisamente che le cose erano peggiori di quanto avesse immaginato.

La guardò di nuovo, ma lei era intenta ad osservare la porta, da cui Kraft stava facendo dei cenni.

«Carlotta», disse Sneidermann. «Carlotta, facciamo un patto. Lei può continuare a vedermi mentre quei due continueranno ad aiutarla».

Lei si voltò, distratta.

«A quale scopo?».

«A volte due differenti specialisti, ad esempio, uno delle ossa ed uno del sangue... lavorano insieme».

«No... preferirei di no».

«Non ha nulla da perdere».

Kraft insisteva. Era chiaro che la giovane voleva rientrare. Si voltò ancora un'ultima volta verso Sneidermann.

«Credevo in lei», disse. «Sa bene che era così. Volevo veramente credere in lei. Ma le cose non facevano che peggiorare, peggiorare, peggiorare. Ogni volta che scopriva qualche cosa di nuovo nei miei riguardi, accadeva di peggio. Quanto tempo doveva ancora durare?».

«Carlotta...».

«Mi sono stufata di sentirle dire che tutto sarebbe finito quando saremmo arrivati al problema fondamentale. Come se fosse in me!».

Sneidermann si alzò. Avrebbe voluto afferrarla, scuoterla, obbligarla ad ascoltare. Era molto insicuro di se stesso. Il suo contatto con lei era sottile come un filo di ragno.

Dall'interno della casa Kraft si accostò alla porta. Si arrestò quando vide che Sneidermann era ancora lì.

«Mrs. Moran», disse, «abbiamo bisogno di lei».

Carlotta si appoggiò alla maniglia. Poi si voltò, abbozzò un sorriso e porse la mano a Sneidermann.

«Penso sia meglio che se ne vada», mormorò sommessa.

Lui sorrise incerto, salutò e la guardò entrare. Kraft e Mehan erano curvi su piante arrotolate della casa e su grafici, alcuni dei quali Billy stava studiando, appoggiato ai gomiti. Sneidermann percorse il marciapiede, salì sulla MG ed innestò la marcia. L'auto ruggì lungo la Kentner Street verso la clinica.

Il dottor Weber fu bloccato tra la porta dello studio e la scrivania della segretaria prima che avesse l'opportunità di dire una sola parola.

«Vuole sapere perché non continua la cura?» disse Sneidermann in fretta ed adirato. «È caduta nelle mani di alcuni ciarlatani che alimentano le sue illusioni. Stanno fotografando le sue visioni. Hanno riempito la casa di fili elettrici in cerca di fantasmi e corpi reincarnati e Gesù Cristo, dottore... lei ci crede. Si rifiuta di vedermi».

Weber rimase per un attimo sbalordito.

«Quali ciarlatani, Gary? Non ha senso quello che dice».

«Affermano di venire dall'università! Questa università. Scienziati. Al diavolo... non è scienza. Non ha neanche lontanamente l'odore della scienza. Non per me...».

«Le vendono delle cure?».

«Presumo di no. Hanno seminato macchine fotografiche e fili dappertutto. Sembra di entrare in un laboratorio».

Weber pilotò Sneidermann nello studio. Chiuse la porta, scuotendo mestamente la testa. Pazienti vulnerabili attirano uomini fiduciosi come il miele le mosche.

«Dalla nostra università?» chiese.

«Psicologia, dicono. La dottoressa Cooley».

Weber fece un largo sorriso.

«Elizabeth Cooley», disse sogghignando sempre più. «Che sia benedetta. Dunque c'è lei dietro tutto questo. Quella non è psicologia, Gary. Quella è parapsicologia».

«Ebbene, sicuro come l'oro che hanno plagiato Mrs. Moran».

Weber sedette, con la mente a qualcosa di remoto eppure familiare.

«L'ho conosciuta... vediamo un pò... trent'anni fa. Era un pezzo grosso del dipartimento di psicologia».

Sneidermann era a malapena interessato, col pensiero fisso sulla sua paziente assediata da fili e ridicole mappe.

«Se-e?» disse. «Che cosa accadde?».

Weber si batté lentamente sulla fronte con un dito.

«Cominciò a vedere fantasmi».

Sneidermann si appoggiò al davanzale della finestra, con le braccia conserte.

«Allora come facciamo a liberarci di questi cretini?» chiese.

Le fantasticherie di Weber svanirono. Si riprese, ruotò sulla poltrona di cuoio nero e vide il volto serio di Sneidermann sopra di lui.

«Non sono venditori ambulanti di olio di serpente, Gary. Sono confratelli accademici».

«Stanno alimentando le illusioni di Carlotta. Devono andarsene».

«Se ne andranno, se ne andranno. Perderanno interesse. Pesteranno il muso contro il muro fra un paio di settimane. Pare che non ottengano mai ciò che vorrebbero. Per una ragione o per l'altra. Poi piombano su qualcun altro».

Sneidermann guardò fuori della finestra, con la mascella serrata.

«Era già abbastanza duro avere Billy che vedeva la famosa cosa», disse. «Adesso, anche Pinco Pallino ed il suo leale amicone ci si sono messi di mezzo».

Weber accese un sigaro. L'essere abbordato da Sneidermann gli aveva fatto perdere il controllo e soltanto ora sentiva di dominare nuovamente la situazione.

«Ha parlato con Carlotta?».

«Era fantastica. Piena di energia e con gli occhi brillanti. Più nessun attacco».

«Isterismo totale».

«Non c'è dubbio».

«Dopo che se ne saranno andati, ritornerà da lei».

«Crede?».

«Senz'altro. Ha bisogno di riassestarsi. Sino ad allora si aggrapperà ai suoi sintomi. Non sono sicuro che sia poi un male per lei».

Sneidermann scosse il capo.

«No. È più di questo. Ora è realmente fissata su quelle apparizioni. Quei due devono scomparire».

Fu Weber a scuotere il capo.

«Non c'è nulla che lei possa fare. Almeno legalmente. Almeno dal punto di vista medico. Si tratta della sua vita, della sua casa, della sua illusione. Finché non supera quella linea, nessuno può toccarla. E non vorrei farlo, a meno che non ci sia costretto... Rammenta che cosa è successo l'ultima volta?».

Sneidermann annuì, ma strusciò minaccioso il piede sul tappeto.

«Quella dottoressa Cooley... è in piena legalità?».

«Secondo l'università sì. Non me la sento di avere a che fare con lei».

Sneidermann guardò lontano con disgusto.

Weber cominciò a temere che per la seconda volta volesse agire contrariamente ai suoi consigli. Sneidermann era diventato particolarmente testardo. Ed i suoi impulsi non erano sempre i più moderati.

«Da lei non voglio scene teatrali, Gary».

Sneidermann non replicò. Si sentiva sconvolto. Furioso con se stesso, con quei due visti la mattina. Ed infine col dottor Weber. Per la prima volta si rese conto di essere fortemente in disaccordo col suo primario.

«Si sta montando la testa», disse Weber.

«Ho una responsabilità».

«La sua responsabilità è di trattarla entro le norme dell'università. È chiaro?».

«Chiarissimo».

Sneidermann evitò lo sguardo di Weber ed uscì. Il primario ebbe il presentimento che stava per perdere il suo migliore interno.

 

17

 

Carlotta diede una festa. Un barbecue. Anche Cindy e George erano invitati. Non aveva bisogno di dire qual era l'occasione. Loro lo sapevano bene. Era trascorso quasi un mese e non c'era stato più nessun attacco. Tutto era praticamente finito. La tempesta era passata. Carlotta diede fondo all'assegno dell'assistenza in cibo e ponce di frutta, ed invitò pure Gene Kraft e Joe Mehan. Al momento rifiutarono, lavorando invece a sistemare degli spessori di sughero nero alle pareti e al soffitto della camera.

Quella mattina erano arrivati presto portando mucchi di lastre ed enormi rotoli di adesivo bianco.

«Per che cosa è?» aveva domandato Carlotta.

«Rammenta le fotografie che abbiamo prese?» spiegò Kraft. «Ebbene, abbiamo delle immagini, ma non c'è mezzo di dire dove fossero situate. Oppure a quale velocità viaggiassero. Nell'oscurità profonda non c'è riferimento. Sistemando tutto questo, facciamo un reticolo di sfondo. Saremo in grado di calcolare la velocità e la forma di quello che si muove in una lunga esposizione fotografica».

Carlotta sospirò e scosse lentamente il capo. Era dispiaciuta per loro. Dispiaciuta per tutti i fastidi che si stavano prendendo e che ormai sembravano così inutili.

«La disturba se inchiodiamo le lastre alle pareti ed al soffitto?».

«Per niente».

«Sarà difficile staccarle», avvertì Kraft, «ma devono essere salde come roccia e ben stabili».

Carlotta diede uno strattone ad una lastra. Ridacchiò. «Spero che poi si possano togliere di nuovo».

Facendo passare il vassoio col pollo, Carlotta scrutava la finestra della camera. Le pareti erano parzialmente coperte di uno strano reticolo bianco fluorescente alternato con sughero morbido e scuro. Kraft e Mehan erano arrampicati su delle scalette lavorando diligentemente per completare l'opera.

Cindy scelse un'ala croccante.

«Allora non glielo hai mai detto?» sussurrò.

«Non c'era ragione».

«Non l'hanno mai visto?».

«Ne hanno colto soltanto la coda», disse Carlotta. «Quando se ne andava».

«Non glielo dirai mai?».

«Può darsi. Un giorno o l'altro», ribatté lei, sorridendo.

George allungò la mano per una terza pannocchia di granoturco.

«Tutto quanto posso dire», affermò, imburrando la porzione, «è che è stata un'esperienza infernale».

In camera, Mehan li vedeva disposti su una panca e sentiva le loro risatine. Di tanto in tanto, si scorgeva Carlotta lanciare sguardi furtivi nella loro direzione.

«Credi che ormai sia troppo tardi?» mormorò Kraft.

«Non saprei», replicò Mehan.

Fuori della finestra il cucciolo di un vicino stava inseguendo Kim.

Mehan sorrise. «Almeno li abbiamo resi felici». La sua espressione mutò. «Pensi che siano stati sinceri con noi?».

«No. Probabilmente le cose erano diverse da come le abbiamo viste».

«Che cosa nascondono?».

«Non so», rispose Kraft.

«George è l'anello debole. Rimani solo con lui e parlerà».

Kraft si voltò. Fuori, George stava prendendo una prugna da una ciotola di terraglia.

«Lo vedremo questa sera», decise Kraft.

Billy si era messo a giocare a croquet con le bambine. Usavano vecchi mazzuoli e palle di legno molto ammaccate. Sembravano curiosamente artificiali, come se divertirsi fosse qualcosa che non avevano fatto da lungo tempo.

 

Quando Kraft e Mehan scoprirono che Cindy ed il marito avevano assistito alla distruzione del proprio appartamento, rimasero sconcertati.

Era ormai sera tarda. Mehan sedeva in casa dell'amico, appartato e silenzioso, incapace di arrivare ad una conclusione. Per un momento ciò che avevano fatto, ogni piano, ogni filo e tubo apparvero banali, così come le teorie accuratamente costruite sembravano una massa di insignificanti futilità scientifiche.

«Potrebbe essere stata una carica elettrostatica in entrambi i luoghi», dichiarò Kraft.

«George ha parlato di lampi intermittenti».

Il primo non commentò. Semplicemente non c'era modo di collegare due ambienti completamente diversi e sperare di trovare una spiegazione basata su onde di interferenza.

«Prima di consegnare allo spazzino il nostro lavoro», chiese Kraft, «c'è modo di salvarlo?».

No, non c'era. Doveva essere trovata qualche altra spiegazione per l'allarmante identità di fenomeni visibili a dieci miglia uno dall'altro, manifestatisi a due personalità molto diverse.

Mehan guardò l'amico. Conosceva Kraft molto bene. La mente di questi era acuta. Messa a fuoco una cosa per volta, la risolveva e poi passava al problema successivo. Quella di Mehan, invece, era un vulcano di pensieri, ciascuno dei quali fluttuava nella luce della coscienza, sviluppandosi ed allontanandosi al sopraggiungere di uno successivo. In quella maniera era in grado di analizzare ogni particolare che uno come Kraft poteva poi sintetizzare con la matita. In realtà si completavano a vicenda. Era una sorta di simbiosi. Si conoscevano talmente bene che potevano parlarsi a frasi smozzicate, ad accenni. Mehan avvertiva il più lieve dei cambiamenti nell'umore e nei sentimenti di Kraft e sovente sapeva che cosa questi stesse per dire prima ancora che lo esprimesse.

«A meno che», disse il secondo, «Mrs. Moran sia in entrambi i casi l'agente poltergeist».

Mehan cercò di schiarirsi le idee. Per la prima volta da lungo tempo sentiva la necessità di bere. Kraft manteneva la calma seduto nell'angolo del divano, fissando attraverso la finestra il vivido panorama notturno.

«Lasciamola quetare per questa notte».

Kraft entrò in bagno e preparò la vasca. Rimase immerso nell'acqua calda, osservando il vapore salire, quasi invisibile, dal suo corpo e dalla superficie. Questo gli rammentò un suo recente studio alla università della Columbia, un confronto incrociato fra riti mortuari ed esperienza. In quarantadue culture conosciute, compresa l'Inghilterra e gli Stati Uniti, dei testimoni ad un trapasso avevano dichiarato di aver visibilmente percepito una sostanza immateriale lasciare il corpo. Kraft si rese conto che alcune culture avevano costruito delle credenze su quei fenomeni, mentre altre le ignoravano seguendo religioni già affermate ed organizzate.

Ma il mondo era pieno di esperienze per le quali non c'erano nomi, né concetti, ad eccezione delle rudimentali spiegazioni fornite dalla scienza. E quando queste spiegazioni erano superate da qualche realtà sovranormale, una persona era schiacciata dall'isolamento e dalla paura.

Mentre Kraft si crogiolava nell'acqua calda e si rilassava, pensò a Mrs. Moran e di quale spaventosa realtà fosse vittima.

Si asciugò con un ampio e logoro lenzuolo di spugna, passò il fon sui capelli e si coricò.

Quando la mattina si svegliò era come se non avesse dormito per niente. Soltanto che una mano gentile aveva spazzato via la fatica e l'aveva lasciato giacere piacevolmente a letto. Quando entrò nel soggiorno, scoprì che l'amico se n'era andato e che il telefono squillava. Era Mehan.

«Ascolta, Gene», disse. «Sono da George e Cindy. C'è anche Billy. Parliamo di automobili». La voce si abbassò. «Gene, quella cosa è successa anche nella sua auto».

Kraft sedette.

«Materializzazioni?».

«No. Voci. Ha sentito delle voci».

«Che genere di voci?».

«Billy non lo sa. Ritengo che sarebbe bene parlare a Mrs. Moran».

«D'accordo. Lascia che mi schiarisca le idee. Gesù... va bene. Questo pomeriggio ho un seminario. Lasciami riferire prima alla dottoressa Cooley».

«D'accordo», disse Mehan. «Resterò qui quasi tutto il pomeriggio».

Kraft riagganciò. Questo portava a tre ambienti diversi, ed anche per manifestazioni sonore. Non si spiegava perché mai i Moran fossero stati così reticenti. Aveva dovuto affidare la cosa a Mehan, che si era dimostrato capace di carpire il segreto da Billy. Ora c'erano tre tipi di fenomeni: concentrazioni dielettriche, forme visibili e suoni. Kraft non riusciva ad immaginare come legarle in un'unica costruzione. Entrò nel parcheggio, salì sull'auto e si diresse velocemente verso l'università.

 

La dottoressa Cooley aggrottò le sopracciglia. Parve quasi eccitata malgrado il suo inveterato scetticismo.

«Due ambienti diversi», rifletté. «Con amici intimi. Una rara coincidenza. Molto rara».

«E lo stesso genere di segni sul soffitto. Li abbiamo visti».

La Cooley sedette, battendo leggermente il diro sulle labbra.

«C'è dell'altro», continuò Kraft, con gli occhi lampeggianti. «È accaduto anche nella sua auto».

Ora la Cooley levò lo sguardo, turbata eppure stranamente interessata.

«Materializzazione?» chiese.

«Non sono proprio sicuro. Inoltre ha sentito delle voci». Kraft tacque. «Dottoressa Cooley», disse esitante.

«Che cosa?».

«Joe ed io abbiamo discusso la possibilità... di chiederle di venire con noi... per parlare con Mrs. Moran».

La docente aggrottò la fronte.

«Non mi piace interferire nelle ricerche degli assistenti, Gene. Lei lo sa».

«Ma non abbiamo alcuna esperienza come psicologi, dottoressa. Se lei potesse parlarle, scavarla un po', esprimere un giudizio...».

«Non sono sicura...».

«Inoltre, questo le offrirebbe la possibilità di vedere la nostra installazione. Avrebbe il modo di controllare se è giusta».

La Cooley sorrise, però Kraft la conosceva abbastanza bene per capire che era terribilmente preoccupata.

«Va bene», sospirò. «Questa sera».

«Splendido. Poi in seguito parleremo di Mrs. Moran».

 

Jerry Rodriguez si mosse a disagio sul sedile. Il volto, un tempo abbronzato dal sole della California, era pallido. L'inverno nel Midwest era stato uno dei peggiori. Le auto scivolavano sul ghiaccio e gli alberghi erano freddi. Jerry si strofinò gli occhi. La mancanza di sonno degli ultimi due mesi l'aveva finalmente vinto. Ritornando da Carlotta, permise alla stanchezza di impossessarsi del suo corpo.

La vita senza di lei era una serie di stanze vuote, una progressione di strade deserte, di bar, di ristoranti, di squallido isolamento. Da qualche parte lei ricavava quell'energia e quella vivacità che facevano di lui un uomo, un uomo completo, un uomo che amava la vita. Era cosciente della personalità di lei, ovunque si recasse e qualunque cosa facesse.

Finché non l'aveva incontrata, un lunedì di quasi un anno prima, era stata una vita di incontri casuali, di colleghi di lavoro con risate obbligate, di momenti crudeli con qualcuna che brillava per la vacua indifferenza per qualsiasi cosa lui facesse o dicesse.

Ricordò la notte... una notte che non aveva mai dimenticato.

Aveva attraversato l'ampio viale dell'Holiday Inn e si era tuffato in un locale notturno. Altri viaggiatori, come lui, entravano ed uscivano dalla sala. Più lontano, dietro il parcheggio, si stendeva l'aeroporto internazionale, come una fantastica forma nella notte. Con animo depresso, si era inoltrato nella sala.

Piante esotiche spuntavano da giganteschi vasi. Un motivo jazz fluttuava nell'aria. In quella piacevolezza artificiale sedette ad un tavolo, osservando le entreneuses scarsamente vestite. La luce ne rendeva morbidi i corpi, ed i sorrisi sembravano quasi spontanei. Apparivano vellutate, compiacenti, ma indesiderabili. Jerry avvertì un sapore amaro in bocca e che soltanto il whisky poteva dissolvere. Il viaggiare, un tempo così seducente, aveva di colpo perso interesse. Vide davanti a sé una lunga vita di spostamenti da città in città, di camere vuote, a caccia di qualcosa che non desiderava. Ormai aveva trentotto anni. Desiderava dell'altro. Ordinò un doppio whisky. Presto il jazz sembrò migliore e le ragazze più attraenti. Mentalmente si immaginò con una di esse, poi con un'altra. Ma soltanto come gradevole fantasia. Conosceva abbastanza bene il sapore amaro del mattino. Quando il giorno si levava su due estranei in una brutta camera d'albergo.

Ordinò delle sigarette. Vide accostarsi una ragazza, il petto tremolante sotto la camicetta trasparente mentre camminava. Il volto levigato non ne mascherava la vulnerabilità. Jerry immaginò che presto avrebbe perso il lavoro. Le ragazze devono presentare un viso felice ai clienti. Agli uomini non piace sentirsi sfruttatori.

Consumò una cena leggera. Poi un altro whisky. Notò la sigaraia che aspettava accanto al bar. Sembrava non essere scaltra. Eppure, sotto sotto, Jerry intuì che non aveva paura degli uomini. Interessato, gli occhi la seguirono mentre camminava lungo la fila dei tavoli. Improvvisamente i commenti e gli sguardi maschili al tavolo accanto lo irritarono.

Dormì, come sempre, all'Holiday Inn oltre l'ampio viale. Il frastuono dell'aeroporto lo rintronava. Intermittenti luci rosse roteavano nell'aria, sentinelle di una qualche incredibile civiltà della quale lui non si sentiva più parte. Improvvisamente temette che tutta la sua vita sarebbe stata una serie di notti analoghe e senza significato. Che sarebbe invecchiato, che sarebbe declinato e poi sparito, proprio nello stesso modo. Senza significato.

Il giorno successivo doveva chiamare Vancouver. Attese nel locale notturno che il telefonista gli passasse la comunicazione. Aveva trascorso l'intera giornata fissando appuntamenti con quella città, soltanto per sentirsi dire due ore prima del volo che forse doveva recarsi a Sacramento. Imprecando, si appoggiò al bar senza nulla da fare che attendere la telefonata.

Si voltò. Le entreneuses gli passavano accanto. Vicino a loro, ma sola, c'era la sigaraia. Lo superò senza vederlo.

Due settimane più tardi, tra un viaggio e l'altro, Jerry e due altri viaggiatori entrarono nel nightclub. Ammazzare il tempo non è un'arte. Lo è mantenersi sensati mentre lo si fa. Come tutti i locali vicini agli aeroporti, anche questo era affollato dello stesso genere di facce: svogliate e transitorie. Jerry sapeva di farne parte. Nella visione depressa di qualche altro viaggiatore.

L'aria remota del jazz suonava familiare. Gli ricordava la ragazza delle sigarette. La cercò. Poi captò una discussione dietro il bancone. Il barista stava parlando con voce stridente ad una delle ragazze. Vide che si trattava di quella che stava cercando. Apparve, senza guardarsi indietro quando il barista la chiamò.

«Che cosa è successo?» chiese Jerry all'uomo.

«Oh, niente. Le ragazze si difendono, di tanto in tanto».

«È duro andare in giro mezze nude».

«Noo... a loro piace».

«Come si chiama?».

«Carlotta. Ma la dimentichi».

Jerry rise.

«Perché?».

«Gli uomini non esistono per lei».

Jerry rise di nuovo. Era contento dello smacco del barista. Evidentemente lo aveva mandato a quel paese.

Ordinò delle sigarette. Arrivò un'altra ragazza. Jerry chiese della brunetta. Allora si presentò Carlotta. Pagò, lanciandole occhiate. Era giovane, forse sui trent'anni. Era minuta di ossatura, con gli occhi neri e grandi nel visetto rotondo. Guardava vagamente qualche punto al di sopra della spalla di lui, evitando i suoi sguardi, poi sorrise e si allontanò.

«Vede?» commentò il barista. «È una suora travestita».

Jerry pagò la consumazione. I due viaggiatori erano spariti da qualche parte. Si sentì improvvisamente depresso. Sorrise senza saperlo, accennò ad un saluto vago al barista ed uscì nel crepuscolo freddo e grigio.

Più tardi, quella stessa settimana, lasciando Vancouver si mise in rotta per il Los Angeles International invece che per l'aeroporto di Burbank. Sapeva di avere in mente la ragazza delle sigarette. Si sentiva assolutamente scimunito, ma così era. Che cosa intendesse fare, ancora non lo sapeva.

A Los Angeles la cercò.

«Carlotta», disse sommesso.

Sobbalzando lei si voltò. Era all'ingresso, la pelle liscia, morbida e bruna nelle luci offuscate. Lo scrutò in viso, per vedere se lo conosceva.

«Mi chiedo se...» disse Jerry.

Lei lo fissò di nuovo con un protettivo velo di indifferenza. Vedendo che non intendeva comprare nulla, si voltò e si allontanò. La vide entrare nella sala. Si domandò quanti altri uomini avessero fatto lo stesso. Non c'era da meravigliarsi se voleva difendersi.

Sedette ad un tavolo. Il complesso musicale stava prendendosi un intervallo. Guardò l'orologio. Aveva lasciato detto all'Holiday Inn di passargli le telefonate al night. Le chiacchiere insignificanti degli avventori e degli innamorati erano ben meglio della camera d'albergo.

«Mr. Rodriguez», chiamò Carlotta, guardando tra le persone al bar.

Avanzò con un foglietto e sembrò leggermente stupita di scoprire che fosse lui. Gli porse il messaggio.

«Chiamata interurbana da Seattle».

«Grazie».

Si alzò e fece la telefonata da un salottino. Parlò per mezz'ora, prendendo appunti, senza discutere, ma irritato dentro di sé. Poi sbatté giù il ricevitore e ritornò al tavolo. Carlotta era lì vicino a dividere gli spiccioli nel vassoio.

«Accidenti!» bisbigliò lui. «Ti spediscono da Seattle a Vancouver a Portland a Sacramento a San Francisco... come un pallone da football. Datemi un po' di respiro!».

Vuotò il bicchiere, in piedi. Carlotta non era certa che si rivolgesse a lei. Sorrise vagamente, nel caso così fosse.

«Vede», continuò Jerry, «è lo stesso con voi. Vede che cosa ci fanno fare?».

Sorpresa, lei non seppe che cosa rispondere.

«Ci vedremo fra due settimane», continuò rassegnato, ma sorridente.

«Sì. Buonasera, Mr. Rodriguez».

Lui ridacchiò, malinconico, lasciò una mancia ed uscì. Giunto alle porte a vetri che davano sulla strada si guardò indietro. Si era ricordata del suo nome. Questo lo elettrizzava lievemente. Cercò di individuarla tra la folla. Guardava dalla sua parte? «Carlotta», si disse sorridendo. Che bel nome. Chi era?

Andò in fretta a Seattle, bloccò un'operazione e si trovò a comunicare buone notizie alla sua ditta di Los Angeles. Tuttavia, l'immagine di Carlotta gli solleticava i pensieri. Si augurò che al ritorno, incontrandola di nuovo, qualche cosa potesse accadere. Che c'era in lei? Qualche cosa di speciale. Qualche cosa di serio. Intendeva scoprirlo.

«Carlotta», disse, «non ha sigari forti?».

«Vendo quello che mi mettono sul vassoio, sir».

«Non ricorda neppure il mio nome?».

Lei lo guardò sospettosa. Poi, vagamente, lo riconobbe.

«Mr. Gonzales».

«Rodriguez», rise lui. «Non importa. Sono stato chiamato anche peggio».

«Mr. Rodriguez», si scusò lei. «Mi dispiace. Desidera del tabacco forte? Posso farmelo dare dal banco».

«Che cosa? Oh, sì... grazie. Per favore».

Improvvisamente la vista del suo seno che si intravedeva sotto il tessuto trasparente lo infuriò. Era fatto per essere celato. Il corpo di una donna è una cosa privata, una cosa morbida, non fatta per il circo di... Jerry si guardò intorno. Gli uomini di affari ridevano, bevevano, trascinando borse dentro e fuori dalla sala. Che cosa stava pensando? Che cosa gli passava per la testa?

«Mr. Rodriguez?».

«Sì? Oh... i sigari. Io... ecco... no, tenga il resto».

Lei sorrise. Forse si prendeva gioco di lui. In realtà si stava comportando come uno sciocco. Di colpo si sentì quasi stordito. Quando lei gli era stata così vicina, con quei seni appuntiti, mentre si sforzava di guardarla soltanto in viso, negli occhi... aveva avvertito una sorta di calore, aveva avvertito chiaramente quella presenza. Ne era stato quasi inebriato.

«Va bene», continuò. «Io... no... lo tenga».

Imbarazzato, lasciò la sala ed uscì nella strada. I tassi suonavano i clacson ed i facchini gli chiedevano di muoversi. Coppie di mezza età discutevano dei loro bagagli davanti alle porte automatiche. Sopra la testa si udivano i lamenti dei jets. Di colpo si voltò ed entrò di nuovo nella sala. Attese per ore, finché l'alba non cominciò a farsi strada, il bar chiuse e lei uscì dallo spogliatoio. Era l'ultima.

«Ebbene, Mr. Rodriguez. Abbiamo chiuso».

«Sì... lo so. Carlotta... sta piovendo fuori. Un temporale terribile. Ha bisogno di un ombrello. Io ce l'ho...».

«Non sta piovendo», replicò lei, ridendo.

Gli occhi lo guardavano con scintillante ironia. Avvertì che nella sala tutti lo osservavano mentre si rendeva ridicolo. Ostinatamente rimase accanto alla porta. Il sorriso stereotipato svanì e si fece strada quello naturale. Un animo delicato, pensò. Da dove le venivano quelle buone maniere? Di colpo si sentì elevato anche lui, ripulito della facciata di cattivo gusto che nascondeva il suo vero essere. Sollevò le mani vuote.

«No», rispose, «ha ragione. Non è vero. E non ho neppure l'ombrello».

Lei rise di cuore. Coprì con la mano i denti regolari e bianchi. Vestita con una corta gonna nera ed una camicetta rossa, appariva ben più avvenente di quanto lo fosse all'interno del locale. In ogni sua mossa c'era fascino. Lui non ebbe più timore di passare per stupido.

«Potrebbe, però», continuò. «Potrebbe piovere in qualsiasi momento. Il tempo è così».

«Non in questa parte della terra».

Il barista stava chiudendo a chiave le porte. Fuori, la luce era divenuta grigia. Era troppo presto per sapere se il sole sarebbe stato limpido o coperto da un banco di nubi. Anche lei era imbarazzata. Jerry non sapeva che cosa fare. Per un istante fu come se fossero una coppia. Il pensiero lo rese quasi delirante. Sentì che doveva dire qualcosa, mostrarle che sapeva che cosa stesse facendo. Eppure, anche lei era turbata.

Fuori, rimasero fermi e goffi, nessuno dei due conoscendo chi fosse l'altro. Lui non sapeva che cosa fare di lei. Lei sembrava timorosa di arrendersi, eppure aveva bisogno di qualcuno. Come lui. La vita l'aveva mutata, ridotta più arrendevole, ma anche più forte. L'aveva ammorbidita internamente e rafforzata esternamente. Come con lui.

Il tassi si accostò e il conducente aprì la portiera. E aspettava, non sapendo chi fosse il primo.

«No», disse Jerry. «Salga lei. Attenderò il prossimo».

«Arrivano ogni dieci minuti».

«No. È suo».

«Va bene. Grazie».

Lei salì. Il tassista accese il motore. Prima che la portiera si chiudesse, Jerry sedette accanto a lei e l'auto partì.

Il cuore gli martellava. Il gesto era stato istintivo. Capì dal silenzio che era tesa. A poco a poco, si rilassò. Jerry di tanto in tanto la guardava. Lei teneva gli occhi bassi, o osservava fuori del finestrino, arrossendo lievemente.

«Da questa parte, prego», disse Jerry.

Il tassista li lasciò ad una costruzione di stile messicano, un motel sulle colline, incastonato in un palmeto. Appena prima di richiudere la portiera del tassi, lei gli pose la mano sul braccio per un momento e lo fissò direttamente negli occhi. La voce era sommessa e sembrava tremare.

«Non ho mai... mai fatto questo. Mai», sussurrò.

«Lo so», ribatté Jerry, ben consapevole che quella volta le cose non sarebbero andate come al solito. Non quella volta.

 

Sull'aereo, Jerry sorrideva. Lei si era rivelata aperta ed onesta, pensò. Non c'erano stati momenti imbarazzanti, proprio per niente. Per la prima volta nella vita, anche la sua dura scorza aveva ceduto. Aveva avuto timore che fosse un'illusione... quella ragazza che non conosceva, che sembrava così remota e così franca nello stesso tempo. Ma no era stata, invece, proprio reale. Ed aveva fatto sentire reale anche lui.

Jerry tossì leggermente e prese una rivista. Non voleva mettersi a ricordare Carlotta a letto. Quei pensieri lo avevano fatto impazzire negli alberghi solitari durante le ultime otto settimane. Privato di lei, si sentiva privato della vita stessa.

Una volta lei l'aveva portato a casa sua. Avevano dormito in quel folle letto europeo, lasciato da qualche ignoto inquilino degli anni passati. Quando il sole si era levato e le voci dei bambini avevano riempito il silenzio, si era sentito improvvisamente al posto giusto con sua moglie ed i suoi figli. Una fantasia che gli aveva fatto quasi venire le vertigini.

Anche Carlotta aveva provato le stesse sensazioni. Dopo sei mesi, entrambi lo sapevano. Una cosa strana. Ormai nessuno dei due poteva vivere senza l'altro. Avevano voluto la loro indipendenza ma, rifletté Jerry, questo non era ormai fuori questione?

La tensione aumentava in lui. Il matrimonio era un problema completamente differente. Soprattutto per Billy. Due angeli e Billy. Jerry si appoggiò allo schienale, cercando di non pensare al ragazzo. Uno dei tarchiati giovincelli, così forti e così ostinati. Per quattro mesi, sin dal suo primo invito a casa, Billy gli aveva resistito, lo aveva deriso, lo aveva punzecchiato.

Jerry voleva trasferirsi da qualche altra parte, mettere casa propria, magari in un buon albergo. Ma svegliandosi con Carlotta, col sole che levigava la morbida spalla di lei, con le bambine che ridacchiavano nell'altra camera, con gli uccelli che cinguettavano fuori della finestra, tutto questo lo aveva riempito di una pace che non aveva mai pensato potesse esistere. Tutto ciò che desiderava, che aveva sempre segretamente desiderato, era lì. Sarebbe stato un buon padre, un eccellente marito e qualsiasi cosa lei avesse voluto, lui lo avrebbe fatto. Ma c'era Billy.

Interveniva a sproposito se dormivano fino a tardi o se facevano rumore. A colazione buttava là sarcastiche osservazioni, finché persino le bambine ne rimanevano imbarazzate. Jerry non poteva fare nulla senza avere Billy addosso. Una volta aveva puntato il dito verso il ragazzo seduto dall'altra parte del tavolo.

«Adesso, giovanotto, tieni la bocca chiusa», aveva detto. «Non ho fatto nulla per meritare questo atteggiamento e tu lo sai benissimo».

Billy, confuso, aveva guardato la madre. Per la prima volta nella vita, lei non lo aveva difeso. Fissava lontano. Gli occhi di lui si erano inumiditi e si era alzato di scatto, rovesciando una tazza.

«Puntalo verso di te il dito, rompiballe!».

Poi, sentendosi sciocco e puerile, incapace di sopportare l'ira repressa della madre, Billy era uscito a gran passi da casa.

«Mi dispiace, tesoro, lui è soltanto...».

«Lo so», aveva replicato Jerry per la centesima volta. «È soltanto un ragazzo».

Una sera era uscito dal bagno, avvolto nell'accappatoio. Nel corridoio c'era Billy, che sbarrava la porta della camera della madre.

«Hai una bella faccia tosta a girare per casa. Come se fossi tu il padrone».

«Sono stato invitato da tua madre».

«Sei tu che l'hai voluto».

«È stata una sua idea, ragazzo».

«E non chiamarmi ragazzo».

«Billy».

«Non l'hai mai chiesto a noi. Non hai mai chiesto se ti vogliamo qui».

«Non tocca a te deciderlo».

«È la nostra casa e non sei desiderato».

«D'accordo», aveva replicato Jerry. «Mi dispiace che tu la pensi così. Ora, se ti sposti, vorrei andare dove sono desiderato».

«Neanche lei ti vuole».

La voce di Carlotta era giunta da dietro la porta, assonnata.

«Che cosa c'è, Jerry? Che cosa succede?».

«Nulla, tesoro. Io...».

«E lei non è il tuo tesoro!» aveva urlato Billy improvvisamente, spingendolo contro la porta.

Jerry si era sentito umiliato, squilibrato contro il muro. Il volto era di colpo arrossito.

«Senti un po', ragazzino».

Jerry di scatto si era chinato in avanti, afferrato Billy per il colletto della camicia, schiaffeggiandolo. I colpi erano rintronati per la casa. Carlotta aveva strillato. Jerry, voltandosi, si era accorto con grande costernazione che aveva visto tutto. Era in piedi in camicia da notte.

«Bastardo», aveva urlato il ragazzo. «Figlio di puttana!».

Si era buttato su di lui prendendolo a pugni in maniera infantile, colpendo alla cieca. Jerry, imbarazzato per aver perso la calma, si era coperto il viso lasciandosi picchiare. Carlotta aveva tentato invano di placare il figlio.

«Billy», aveva strillato. «Maledizione, Billy!».

Infine, piangendo, questi aveva smesso, li aveva fissati entrambi, gridando: «Voi due. Andate al diavolo. Non me ne importa un cavolo».

Era scappato, inciampando nelle sedie del soggiorno, e poi uscito sbattendo la porta.

«Gesù, tesoro», aveva detto Jerry. «Mi dispiace. Mi dispiace. Non so come sia accaduto. Ho perso la...».

«Non importa. Va tutto bene...».

«Mi taglierei la mano».

«Va tutto bene, va tutto bene».

Quella notte Carlotta e Jerry avevano dormito nel letto matrimoniale. I sogni di lui erano stati agitati e violenti. Carlotta aveva cercato di calmarlo. Ma ambedue sapevano che la tensione era aumentata ed arrivato il momento di prendere una decisione.

Ora, finalmente, questa era presa. Molto semplice, dopotutto. La vita senza Carlotta avrebbe significato una morte morale, ritornare ad essere un mezzo uomo, un guscio vuoto.

Il pilota accese l'avviso «non fumare». «Prego, allacciare le cinture», incalzò la hostess.

Jerry guardò in basso verso Los Angeles che si avvicinava a grande velocità: le interminabili file di strade, i milioni di case dal tetto a terrazza disseminate come una gigantesca ed anonima coltre trapuntata, le ville dei ricchi sulle colline; i quartieri del centro, grigi, regolari e monotoni ed infine l'oceano come un cielo azzurro, con minuscole sentinelle di guardia sul bordo sabbioso...

...e Carlotta. La sua Carlotta. Presto sua futura moglie.

 

18

 

La dottoressa Cooley, bussando alla porta, si sentì sospettosa. Vedendo le auto parcheggiate sulla Kentner Street avvertì disagio. Rammentavano gli incontri che aveva avuto, le cosiddette conferenze, dove ogni genere di persone arrivava da chilometri di distanza a testimoniare qualche cosa e ad esaminare qualche cosa. La Cooley aveva incontrato dozzine di eccentrici, di creduloni, di terrorizzati e di suggestionabili. Aveva capito che la ricerca necessitava di un controllo scientifico se Kraft e Mehan stavano seriamente considerando l'aspetto strano, quello della parapsicologia che si trovava nei libri. Improvvisamente aveva saputo che, se voleva, il progetto sarebbe stato annullato.

Billy aprì la porta e rimase immobile.

«Ciao. Sono la dottoressa Cooley. Dell'università...».

«Chi è?» chiese una voce dall'interno.

«È una signora», rispose Billy.

Carlotta venne alla porta. Era più giovane di quanto la dottoressa Cooley avesse immaginato e molto più carina, piccola e coi capelli neri. Carlotta sorrise graziosamente e stese la mano.

«Entri», disse.

«Grazie», ribatté la docente e mosse qualche passo.

Parecchi studenti dell'istituto di parapsicologia alzarono lo sguardo, meravigliati e sorridenti. Davanti a loro, sul tavolo di cucina, erano stese delle grandi mappe della casa, sulle quali erano stati tracciati i punti dei fenomeni psicocinetici.

«Buonasera, dottoressa», disse uno degli studenti.

«Non sto operando un controllo», ribatté questa. «Volevo soltanto parlare con Gene e Joe».

«Sono in camera», avvertì Carlotta.

La Cooley la seguì attraversando il soggiorno. Osservò che la giovane si muoveva con la grazia lieve di una persona ben allevata, una grazia che si adattava perfettamente alla minuscola casa.

In camera, Kraft e Mehan alzarono lo sguardo. Tenevano dei fili elettrici in mano e stavano preparandoli per dei collegamenti.

«Buonasera, dottoressa Cooley», disse Kraft. «Ha parlato con Mrs. Moran?».

«Solo brevemente. Vorrei prima farlo con voi».

Carlotta capì che avevano cose scientifiche da discutere. Sorrise, per un momento rimase imbarazzata sulla porta, poi si scusò dicendo che doveva andarsene per rispondere a domande che gli studenti le avevano rivolte in cucina.

«Ho pensato», disse la Cooley a bassa voce, «alla faccenda delle materializzazioni e altro. Non mi sembrano giuste».

«Non abbiamo concluso nulla, per quanto ci riguarda», ribatté Kraft.

«Secondo me la parola d'ordine è la cautela. Alla lunga, nessuno di noi può permettersi di lasciarsi trascinare in un comportamento bizzarro».

«Dottoressa Cooley», disse Mehan, «lei ha in mente qualche cosa d'altro».

«È così, Joe. Se avverrà, annullerò il progetto. Desidero che questo vi sia chiaro».

Kraft e Mehan si scambiarono degli sguardi.

«È per il bene dell'istituto ed anche per il vostro», continuò.

«Ma...».

«Non sto dicendo che lo farò, soltanto che potrebbe accadere. Voglio essere dalla vostra parte, ma dipende da che cosa succede a Mrs. Moran».

«Questo significa che se è isterica...».

«Esattamente. Non desidero che questa casa cominci a somigliare a quelle sedute spiritiche che frequentavo quando iniziai ad interessarmi di parapsicologia. Tanta gente che va e viene...».

«Tutto qui è controllato», obiettò Kraft.

«Lo vedo... ma... parlerò a Mrs. Moran. Ci vedremo dopo».

La dottoressa entrò in soggiorno. Carlotta stava correggendo delle date su parecchi schemi che gli studenti tenevano davanti a lei. La dottoressa indicò, con un cenno quasi impercettibile, che voleva parlare da sola con la donna. Dopo che tutti se ne furono andati, sedette in poltrona, di fronte a Carlotta che si era sistemata sul divano. Ne studiò gli occhi, il modo di parlare, di gestire, con l'occhio obiettivo di una studiosa esperta.

«Kraft e Mehan l'hanno informata che sono una psicologa?» chiese.

«No».

«Vi sono molte occasioni in cui le due discipline sono connesse».

«Capisco», ribatté Carlotta, incerta a che cosa mirasse quella signora dall'aspetto distinto.

«Ciò che le devo chiedere, Mrs. Moran, è se i fenomeni che ha sofferti sono cose percepite o viste, oppure simili a sogni».

Carlotta rise.

«È proprio quello che mi aveva chiesto lo psichiatra».

«Ebbene, è molto importante».

«Le posso assicurare», proseguì Carlotta, «che gli oggetti che volano, l'odore, il freddo... tutto è reale. Anche i suoi ricercatori l'hanno constatato».

«Lo so. Ma suo figlio ha confidato a Mr. Mehan che sono accadute altre cose».

«Che cosa intende dire?» chiese Carlotta, evasiva.

«Per esempio nella sua auto».

Carlotta rise. La dottoressa notò il cambiamento negli occhi scuri. Prima una punta di sospetto li aveva annebbiati.

«Ho sbattuto contro un palo del telefono».

«Billy ha spiegato il perché».

Carlotta tacque. Allungò la mano per prendere una sigaretta. Avvertì le prime sensazioni di nervosismo da quando era stata da Sneidermann. Si chiedeva se lo psicologo non fosse simile allo psichiatra. Esaminò la bella donna in gonna di tweed e giacca che aveva di fronte.

«Ho udito delle voci».

«Le aveva mai sentite in casa?».

«A volte. Non ne sono sicura».

«Le ha udite qualcun altro?».

«Billy».

«E le bambine?».

«No. Non credo».

La Cooley notò quanto fumasse nervosamente. L'improvviso cambiamento di comportamento era significativo, lo sapeva bene.

«Posso chiederle, Mrs. Moran... Perché i suoi figli dormono in casa dai vicini?».

«Qui è troppo pericoloso».

«Per via dei fenomeni poltergeist?».

«Esatto».

«Non c'è altra ragione?».

«No».

Carlotta sorrise, un sorriso appena accennato, nervoso. La dottoressa vi riconobbe i caratteri dell'ansietà.

«Ed i suoi amici?», chiese la Cooley.

«Che cosa?».

«Mr. Mehan ha parlato con loro».

Carlotta non replicò. Si diede ostentamente da fare per cercare un portacenere.

«Che cosa è accaduto nel loro appartamento?».

Carlotta si strinse nelle spalle.

«Non lo so», disse. «Non sono in grado di spiegarlo».

«Ma tutti avete visto qualcosa?».

«È stato terribile. Ogni cosa è andata a pezzi. Eravamo spaventati da morire».

La dottoressa Cooley capì che Carlotta stava nascondendo qualche cosa. Che cosa fosse, non sapeva spiegarselo. Cercò di fare pressione e la voce divenne più severa.

«Che cosa ha visto Mrs. Moran?».

«Visto?».

«Lei ed i suoi amici».

Carlotta annaspava in cerca di parole.

«Ho visto... così buio...».

«Sì?».

«Poi lui è arrivato... senza preavviso...».

«Chi?».

Carlotta alzò lo sguardo, allarmata. Billy stava chiamando.

«Chi?» ripeté la dottoressa.

«Mamma», gridava il ragazzo. «Cè qualcuno qui».

«Fallo entrare».

«No. Vieni!».

Disorientata, Carlotta si alzò dal divano. Guardò fuori dalla finestra. Una figura familiare stava scendendo dal tassi.

Jerry rimase immobile davanti alla porta. Guardò attentamente Billy. Il ragazzo era incerto. Si passò la lingua sulle labbra e si voltò a guardare le persone occupate nell'interno della casa. Jerry lo superò ed entrò.

Carlotta era sulla soglia del soggiorno. Involontariamente si portò la mano alla bocca. Muovendosi affaccendati e bisbigliando, parecchi uomini ed una donna sedevano sul divano, sulle sedie, guardavano fotografie e mappe distese sul pavimento.

«Jerry!» lei tentò di dire. Ma la parola non venne. Si mossero solo le labbra.

L'uomo fece un largo sorriso e le porse la mano. Ma capiva che c'era qualcosa di singolare.

«Baby!» La sentì morbida tra le braccia. Rise nervosamente e le sollevò dolcemente il viso prendendola per il mento e guardandola negli occhi.

«Perché non hai telefonato?» chiese lei debolmente.

«L'ho fatto. Ogni volta mi ha risposto una voce diversa. Che cosa sta succedendo?».

Lei lo guardò con gli occhi spaventati di un animale preso in trappola.

«Oh, Jerry!».

«Che cosa c'è? Non sei contenta di vedermi?».

«Sì, ma io... io...».

Un giovanotto piccolo sporse la testa da dietro un angolo.

«Mrs. Moran», disse vivace. «Oh, scusatemi».

Jerry si domandava chi mai fosse. Ora il mormorio delle voci si faceva sempre più distinto. Guardò Carlotta con espressione perplessa.

«Sono medici», spiegò questa debolmente.

«Medici?».

Kraft si fece avanti, col suo golf fuori misura e la mano tesa.

«Buon pomeriggio», disse. «Sono Gene Kraft. Reparto di parapsicologia. Viene dal Sonoma State?».

«No».

«Mi scusi. Prego, s'accomodi».

Jerry sussurrò a Carlotta.

«Chi diavolo è quello?».

Lei cominciò ad impallidire, come se fosse sul punto di svenire. Si sentì prendere dalla sommergente onda d'isterismo che l'aveva oppressa per quasi un mese. Cominciò a cedere alla depressione. Tentò di riprendersi, rimanendo sospesa sul vuoto che si apriva pauroso sotto di lei. Ma ormai Jerry aveva visto tutto. I medici, gli studenti, gli apparecchi, le macchine fotografiche. Certamente l'ultimo sostegno che lei aveva stava scomparendo. Avrebbe saputo come fa il mondo a franare.

«Sono la dottoressa Cooley», disse una donna alta, vestita in modo formale. «Direttrice dell'istituto di parapsicologia della West Coast University. Spero che non ci consideri degli intrusi. Siamo qui su invito di Mrs. Moran».

Jerry le strinse la mano.

«Per niente. Continui pure e faccia ciò che vuole, dottoressa Cooley».

Conservando una parvenza di sorriso, si voltò verso Carlotta e disse in un sussurro.

«Mettiti qualcosa addosso. Usciamo da questa gabbia di matti».

«Jerry, non posso...».

«Coraggio».

Carlotta andò verso l'armadio a muro, parlò qualche minuto con Kraft, che si lagnò di chissà che e parve molto contrariato. Ma lei vide Jerry farsi impaziente alla porta, prese un golf ed insieme si diressero verso l'auto.

Il rombo della Buick appena riparata vinse il brusio di voci dentro la casa.

Si diressero verso l'oceano. Jerry non parlava. Non trovava nulla da dire, ed anche non avrebbe avuto modo di farlo. Non era sicuro di essere adirato o spaventato. Di tanto in tanto guardava Carlotta. A volte sembrava tranquilla. A volte tradiva un'aria malata e pallida che lo preoccupava.

Lei tentava di evitare il suo sguardo. Teneva il capo voltato, osservando le case che si allontanavano.

Jerry manovrò la Buick sulla scogliera che dava sul porto e si fermò. Entrarono in un ristorante dove servivano pesce. E ancora continuavano a non rivolgersi la parola.

Delle reti pendevano dalle pareti, le candele diffondevano una luce arancione sopra i tavolini e delle stelle di mare erano esposte in vasi di vetro accanto al banco. Jerry ordinò per entrambi, accese una sigaretta, si guardò intorno come se temesse di essere stato seguito dalla folla che aveva invaso la loro casa, e poi si chinò gentilmente verso di lei.

«Di che cosa si tratta?» chiese sommesso.

A lei vennero le lacrime agli occhi.

«Coraggio, non fare così», disse lui.

«Stanno cercando di aiutare», spiegò lei rauca.

«Aiutare? Aiutare chi?».

«Me».

Si guardò attorno, non credendo ai suoi orecchi.

«Non capisco».

Carlotta lo osservò. Lo vide come allontanarsi. Aveva sempre saputo che sarebbero arrivati a quel punto. Però non si era immaginata che sarebbe accaduto in un ristorante sul mare, ma solo che doveva succedere. Glielo avrebbe detto, lui sarebbe caduto dalle nuvole, ed ecco fatto.

«Sono stata malata, Jerry».

«Malata? Che tipo di malattia?».

«Non potevo dormire. Sono stata da un dottore».

«Continua».

«Ho visto delle cose. Durante la notte».

Jerry era pallido. Sentir parlare così lo faceva soffrire.

«Incubi, vuoi dire?».

«Come incubi».

«E sei stata da uno psichiatra?».

Carlotta capì che non c'era senso a nascondersi.

«Sì. Uno psichiatra». .

«E allora?».

«Allora adesso non ne ho più».

Jerry aggrottò le sopracciglia. Sembrava sollevato.

«Questo è un fatto positivo. Comunque, che cosa ha a che fare tutto questo con la gente per casa?».

Il cameriere arrivò con l'aragosta e le insalate, le posò sul tavolo e si allontanò di nuovo. Il crepuscolo gettava un bagliore turchese attraverso la gigantesca vetrata che dava sul Pacifico.

«Rispondimi, Carlotta».

«Lo psichiatra non era riuscito a guarirmi. Così questa gente sta tentando di aiutarmi».

Jerry sembrò meditare. Pareva stesse lottando con una folla di pensieri. Improvvisamente, voracemente, infilò la forchetta nell'insalata e cominciò a mangiare.

«Hmmmmmm», mormorò, masticando. «Rammento che la signora ha detto di essere una psicologa o qualcosa del genere».

«Non sei in collera, vero?».

Jerry per un momento non rispose.

«Perché dovrei esserlo. Se non puoi dormire la notte, non puoi dormire la notte».

Carlotta era stupita. Si era aspettata che lui si infuriasse. Eppure si domandava che cosa stesse veramente pensando.

«È una cosa recente. Da quando sei andato via».

Jerry rise.

«Lo so perché non puoi dormire», commentò, ammiccando.

Carlotta non aveva appetito, ma bevve un po' di vino. Stando con Jerry, a poco a poco si sentì presa dal vecchio sentimento. Era rassicurata, persino affascinata. Desiderava andare da qualche parte con lui.

«A proposito», disse Jerry, «che cosa ci fanno tutti quegli apparecchi? Avevano abbastanza filo per un calcolatore».

«Stanno misurando».

Jerry alzò lo sguardo. Gli occhi erano scintillanti. Lei non sapeva dire se per il divertimento o per la rabbia.

«Che cosa misurano?».

«La casa».

«Senti, Carlotta, ti pongo una domanda e tu mi rispondi a vanvera. È da quando sono tornato. Mi vuoi a casa o no?».

«Ma certo, che ti voglio a casa», replicò lei, sporgendosi in avanti e posandogli una mano sul braccio.

Il contatto li calmò entrambi.

«Allora spiegami che cosa stanno misurando», disse lui semplicemente.

«Hanno una teoria», spiegò, «che qualcosa nella casa mi impedisca di dormire».

Lui bevve un altro bicchiere di vino e ne versò dell'altro ad ambedue.

«Mi sembra ragionevole.».

Jerry masticò ed inghiottì. Per un certo tempo nessuno parlò. A lei tornò l'appetito. Ancora una volta sentì di appartenere al mondo che era anche del suo compagno. Era una donna, stava cenando col suo amore, ascoltava della musica sommessa e osservava il sole tramontare lontano, all'orizzonte. Non era più una persona stramba. La confusione era terminata. Cercò di non pensare neppure alla sua casa.

«Un benvenuto singolare, non ti pare?» disse lui, sorridendo.

«Avrei dovuto dirtelo, Jerry. Ti prego, perdonami».

Lui terminò di cenare. Le fece cenno di finire. Lentamente a Carlotta l'appetito aumentò. Come se l'avesse riacquistato insieme alla vita. Lui le accarezzò il braccio morbido mentre il braccialetto riposava sopra la tovaglia bianca.

«Ho sempre pensato che esiste soltanto una cura quando non ci si sente bene. Voglio dire, non ci si sente bene qui. Nel cuore. È quando si tiene a qualcuno e si è corrisposti. Allora si può affrontare qualsiasi cosa intralci la strada. Senza qualcuno si può essere milionari eppure sentirsi infelici». Jerry arrossì. «Capisci che cosa voglio dire? Io non credo a quel tipo di medici. Non fraintendermi. Se non puoi dormire la notte e vuoi rivolgerti a loro, per me va bene. Ma credo sia quello che intercorre fra due persone ad essere più importante».

Carlotta sorrise. Si mise la mano alla guancia.

«Andiamo a casa», disse lui gentilmente.

Lei si gelò.

«È così piena di gente...».

«Capisco, ma a quest'ora se ne saranno già andati».

«A volte lasciano le loro cose nella casa».

«E che differenza fa?».

«Non è molto romantico. Perché non ritorniamo al motel, quello sopra l'oceano?».

«Perché voglio svegliarmi nel nostro letto con te».

Lei sorrise incerta.

«Qualcosa non va», mormorò luì.

«No. Vado a telefonare per essere sicura che se ne siano andati».

Si alzarono. Carlotta chiamò e Jerry si sentì di nuovo montare la rabbia. Ma non sapeva chi biasimare. Pensò ai giovanotti che avevano invasa la casa. Perché lo allarmavano? Perché sentiva, anche ora, che Carlotta gli stava nascondendo qualche cosa? Perché quella telefonata? Improvvisamente la loro relazione fu piena di tensione e misteri. Un bel ritorno al focolare, pensò amaramente. Finì il vino in un sol sorso.

 

19

 

Carlotta si teneva al braccio di Jerry. Aveva paura della casa col suo strano vuoto, ora che la gente se n'era andata. Dov'era il suo esercito? La notte era buia, senza luna. Billy era nel garage. Sentiva la radio. Le bambine erano nella casa accanto, preparandosi ad andare a letto. Tutto sembrava familiare eppure odioso.

«Sarebbe stato bello, lontano da qui», disse sottovoce.

Jerry le sfregò il naso sulla nuca e la baciò dolcemente sulle labbra.

«Ti ho portato qualcosa dall'est», sussurrò.

Carlotta appariva distratta, come se la mente fosse altrove. Lui non riusciva ad immaginare dove. Non rispondeva.

«Che cosa è?».

«Vedrai», rispose lui, sorridendo.

Una volta in casa, Jerry accese le luci. C'era disordine. Pezzetti di carta e notes, avanzi di filo elettrico e qualche vite erano sparsi sul pavimento. Aprì la finestra e fu felice per la brezza notturna che gonfiava le tende e gli carezzava la faccia. Le altre cose gli apparivano pacifiche. Parecchie luci giallastre e rettangolari punteggiavano la macchia degli arbusti scuri. Si domandava, vagamente, perché le bambine trascorressero la notte coi vicini. Fu distratto da un remoto abbaiare di cane, ed ora i lampioni brillavano di una luce incerta e strana, che si attenuava e poi diveniva di nuovo vivida. Che cosa c'era di sbagliato? pensò.

«Oh, Jerry!» sussurrò lei. «Come è bella!».

Teneva davanti una camicia da notte di seta. Sul davanti c'erano nastri neri intrecciati ed un pizzo sottile e bianco sui fianchi.

«Ebbene», disse lui, «spero che sia della tua misura».

Carlotta gli sorrise e lo baciò sulle labbra. Però i suoi occhi erano vicini, o meglio, cercavano qualche cosa d'altro. Non certo lui. La gelosia cominciò a nascergli dentro come una nube nera. La osservò mentre premeva la seta contro la guancia per sentirne la morbidezza. Improvvisamente sembrò una marionetta, vuota e priva di sentimenti. Chi tirava i fili? pensò.

«Forse è un tantino elaborata?» commentò.

«No», negò lei, ridendo. «Mi ci sentirò bene dentro».

«Puoi restituirla se non è della tua taglia. Hanno succursali dappertutto...».

«È perfetta, tesoro».

Sedette sul divano, fissandola negli occhi. Qualsiasi cosa avesse visto in essi molti mesi prima, quasi una remota nuvola temporalesca, era aumentato. Ora la dominava, lo capiva bene. Aveva completa presa su di lei. Tuttavia la estraneità che poteva prendere due amanti che erano stati lontani... non accennava a scomparire. Cominciò a sentirsi irritato, umiliato e la solitudine crebbe intorno a lui compatta ed invincibile come la notte che era scesa sulla terra.

«Carlotta», sussurrò, piegandosi in avanti.

Le labbra trovarono le sue, morbide ma non ancora calde, anche se lo cercavano. Le passò leggermente le dita lungo la nuca, sempre più decisamente e lei trattenne il respiro e gli si strinse vicino.

«È bello riaverti di nuovo», mormorò.

La sentì tremare fra le braccia.

«È l'ultima volta», annunciò. «Ho l'offerta di una ditta».

Lei non fece commenti. Lui non la vedeva in viso. Si chiese quali pensieri le affollassero la mente. Si sentì goffo. Non si era reso conto di potersi sentire insicuro quando fosse ritornato.

«Volevo trovare un posto per noi a San Diego», disse, «ma non c'era tempo».

Lei bisbigliò con un filo di voce, baciandogli il collo ripetutamente. Lui sentì le lacrime agli occhi. Era stato troppo solo. Ora stentava a credere di essere di nuovo fra le sue braccia.

«Lo possiamo cercare insieme», disse rauco. «È la soluzione migliore».

Lei sussurrò sommessa, con voce tremante: «Lo vorrei, Jerry. Sì. Appena possibile».

Ora, come se un improvviso calore li avesse presi, il senso di lontananza era sparito. Lui avvertì un impeto. Per un istante sentì quasi le vertigini.

«Jerry, Jerry», disse lei sommessamente.

Da lontano un uomo chiamò il suo cane. Il traffico rombava remoto lungo la Kentner Street. Lui chiuse gli occhi. C'era soltanto Carlotta. Fiutò il dolce profumo della sua pelle, ne sentì le mani delicate sopra di lui. La voleva subito e lì.

«Bevi del vino», disse lei, sorridendo.

Jerry le tenne il viso. La paura le era sparita dagli occhi. In essi vide solo Carlotta. Le pupille erano grandi e profonde nella stanza buia e il viso leggermente arrossato. I capelli le cadevano delicatamente sulla fronte e sulle tempie. Le narici si allargavano Íeggermente mentre respirava, sorridendogli.

«Non ne ho bisogno».

«No. Bevi», disse scherzando. «È per te. Per celebrare il tuo ritorno».

Si alzò e si diresse verso il frigorifero. Ne osservò dalla soglia i movimenti agili ed aggraziati. Nessuno dei due accese la luce. Lei lottava col tappo.

«È stato proprio uno strano ritorno», disse Jerry allegramente.

Per un istante il volto di lei si rabbuiò, ma poi si fece sorridente. In maniera forzata, però. Gli offrì un bicchiere, colmo di liquido trasparente. Brindarono e bevettero.

Jerry non l'aveva mai vista così bella. Rivelava un nuovo sentimento. Sembrava che avesse bisogno di qualcuno capace di proteggerla. Da che cosa, non sapeva. Ma questo gliela rivelava in modo diverso. Sembrava più morbida, quasi più piccola, più nascosta. Forse le ombre e forse il vino. Ma ora la voleva e lesse lo stesso desiderio negli occhi di lei.

«Ancora un goccio».

Un minuscolo braccialetto tintinnò al suo polso mentre versava. Jerry alzò il bicchiere. Le sue labbra incontrarono di nuovo quelle di lei, fredde ed umide per il vino. Lo fecero fremere. L'oscurità era divenuta seducente, una presenza morbida che li avvolgeva entrambi con segreti infiniti.

Lo prese sottobraccio. Attraversarono il soggiorno, superarono i misuratori di temperatura che sporgevano dall'armadio della biancheria. Lei si arrestò, mise le dita sulle labbra e poi si voltò.

«Lasciamela indossare», disse, stringendo la camicia da notte al petto. «Poi entri».

«Va bene».

Aprì la porta della camera. Un momento dopo la mano di lei si sporse, reggendo la vestaglia.

«Mi domando di chi sia questa», disse Jerry, sogghignando.

Carlotta gli strizzò allegramente l'occhio e sparì in camera.

Lui era nel bagno quando udì una voce, mescolata alla radio. Era Billy, che appoggiato al banco di lavoro ripeteva le parole di una canzone. Jerry scorgeva l'ombra del ragazzo piegato sopra dei ferri. Con la fronte aggrottata, chiuse adagio la finestra. Voleva che quella sera nulla andasse male. La voce di Billy svanì in lontananza e sparì.

Carlotta emise un gemito sommesso. Sembrava quello di un bambino che stesse giocando, una specie di lamento prolungato. Jerry scivolò nella vestaglia e rise leggermente.

Lei gemette di nuovo.

«Carlotta, Callotta», fece eco lui.

Lisciò i capelli, si esaminò il viso nello specchio e risciacquò la bocca. Passò nel corridoio. Spense la luce del bagno. Faceva freddo e si avvolse più stretto nella vestaglia.

Carlotta gemette di nuovo.

Jerry ringhiò, uno scherzoso ringhio da tigre. Rise e inciampò nel tentativo di farsi strada nel corridoio. Rise ancora mentre accidentalmente urtava con la mano nell'armadio della biancheria e si imbatteva in un viluppo di fili elettrici.

Quando arrivò alla porta della camera, sentì un nuovo gemito. Qualcosa di preoccupante.

«Carlotta», chiamò.

La porta era chiusa. Vi si appoggiò. Non si aprì. La spinse. Lei emise un lungo, debole ma disperato lamento.

«Carlotta!».

Sfondò la porta. Essa sbatté violentemente contro la parete e rimbalzò, colpendolo al braccio. Nell'oscurità scorse appena la giovane. Teneva il corpo arcuato. Il bianco delle lenzuola compariva sotto la schiena, mentre si tendeva e gemeva.

«Che cosa c'è, tesoro?» chiese. «Stai male?».

Improvvisamente lei si dibatté, poi si irrigidì ed infine i fianchi presero ad ondulare lentamente, a ruotare e le cosce nude venivano divaricate.

«Ooooooohhhhhh!».

Nel buio egli riuscì a distinguerne il corpo, coi seni appiattiti come se fossero premuti e che si schiacciava verso la parete.

«Carlotta».

«Oh, Dio».

Lei si lamentò mentre arcuava ancora il bacino. Eppure lì non c'era nulla. Nel cervello di Jerry parvero scoppiare migliaia di fuochi folli e ciascuno era un pensiero che non si concludeva. Credette di scorgere delle nubi fioccose sopra l'armadio. Decise che era una specie di riflesso proveniente dalla finestra. La mente gli giocava brutti scherzi. Capì, con pena, che doveva strapparla a quanto stava succedendo. Era malata. Qualunque cosa facesse, doveva liberarla. Avanzò incespicando e le afferrò il braccio. Lei glielo strappò violentemente di mano.

«Oh!Oh!Oh!» gridò improvvisamente.

Lui indietreggiò, sfregandosi gli occhi. Subiva un attacco. Ecco che cos'era. Non ne aveva mai visti prima. Quel ruotare dell'addome lo faceva star male. Le cosce di lei afferravano, spingevano qualcosa in avanti, si allargavano. Ma lei lo vedeva? Ansimava in cerca d'aria, lottava, tirava, allontanava qualcosa, si rotolava. Poi il letto si schiacciò sotto un peso. Si schiacciò ben più di quanto avrebbe dovuto sotto un peso normale, mentre le molle cigolavano ritmicamente.

«Oh, Gesù», lei si lamentò flebilmente. «Gesù! Oh!».

Il cervello di Jerry era un vulcano. Capì di essere ormai in preda al panico. Stava raggelato nell'ombra.

Credette di vederle luccicare la pelle. La luce della finestra sembrava fondersi lungo i suoi fianchi e l'addome, trasformandosi in una fiamma verde-azzurra.

«Basta», urlò stupidamente ed assurdamente.

Si buttò su quegli arti che si dibattevano, cercò di tenerle gambe e braccia inchiodate; poi ebbe la percezione di un lampo vivido rosso e giallo e cadde all'indietro, abbattuto da un terribile colpo. Del sangue gli colava dal volto. L'occhio destro gli bruciava per l'unghiata delle mani di lei.

«Basta», urlò.

L'incandescenza verde-azzurra cominciò ad appallottolarsi, rotolando sopra di lei, scurendosi sempre più, finché vide il corpo illuminato da quella luce sinistra. Attraverso l'occhio buono, credette di vedere le natiche premute, strette, poi premute e strette ancora.

Jerry girò ciecamente nel buio, trovò una sedia leggera e la alzò. La calò con violenza sulla nube che bloccava la testa di Carlotta contro il guanciale, sulla nube che le aveva aperte le gambe e l'aveva penetrata.

Le schegge di legno si sparsero in giro. Carlotta urlò.

Jerry sanguinava. Il sangue colava a fiotti dalla testa delicata di lei. Era accucciata sul letto. Le lenzuola erano rosso vivo. Lo accecavano. Perché non ci vedeva? Nulla aveva più senso. Teneva in mano quanto era rimasto della sedia. Si rese conto che la luce era accesa.

«Bastardo».

Voltandosi, Jerry vide Billy sulla soglia. I suoi occhi erano infuriati. Paralizzato dapprima dalla vista della madre, che gemeva dal dolore fra le lenzuola arrossate, aveva poi visto Jerry, in piedi, con la vestaglia macchiata di sangue e con la sedia rotta in mano.

«Sporco bastardo», urlò con voce strozzata e si gettò in avanti.

«Aspetta», biascicò Jerry, strizzando gli occhi, confuso. «Io non...».

Ma il peso di Billy lo colpì in pieno petto. Sentì mancargli l'aria. Ebbe la vaga sensazione di lenzuola calde che gli cascavano addosso. Il rumore che avvertiva da lontano erano i pugni di Billy che gli rimbombavano sul torace, sul viso, sull'inguine mentre Carlotta, rantolando pesantemente, si era trascinata sino all'orlo del letto. Il lamento era cessato. Sedeva, tenendosi la testa, scivolando lentamente verso il pavimento.

«Per l'amor di Dio... Billy!».

Aveva il volto tumefatto ed il naso gocciolava sangue sulla vestaglia. Alla cieca, sferrò il suo pugno pesante e percepì qualcosa scricchiolare nel viso del ragazzo. Questi sbatté contro il comodino. Il portacenere e l'orologio caddero e si frantumarono contro il muro.

Jerry si voltò, strisciò avanti, piangendo. Carlotta stava sprofondando nella pozza del suo sangue.

«Assassino», urlò Billy e calò la lampada più forte che poté. Mancò di poco la testa di Jerry, ma lo colpì sulla spalla sinistra. Lui si coprì il capo, tentando di alzarsi e di fuggire. Voleva riportare Carlotta alla vita. Voleva essere morto, voleva svegliarsi dall'incubo. I piedi gli si erano impigliati nelle lenzuola. La lampada gli calò ancora sulla spalla, la base si spezzò ed i frantumi caddero a pioggia sul letto.

Improvvisamente sentì una sberla pesante.

«Gesù», esclamò Jerry, mentre lacrime e sangue gli colavano dal viso. La sedia fracassata, non si sa come, era scivolata dietro il comodino. Billy stava cercando di ripararsi la faccia da un colpo. Alla porta c'era un poliziotto. Chi strillava? Jerry lottò per riprendere coscienza. Le bambine. Le figlie di lei, in pigiama, ed una donna anziana...

«Carlotta!» urlò Jerry.

Un poliziotto stava tastandole il polso. Qualcuno l'aveva afferrato per il braccio. Avvertì dolore mentre veniva sollevato ed immobilizzato.

«No, no», balbettò. «Lasciatemi solo. Voi non capite...».

Sentì le manette serrargli i polsi. Fu fatto sedere sul bordo del letto. Vide Billy sparire con un agente. Udì le parole «assassino» e «uccisa» e tentò di alzarsi, ma il bastone del poliziotto lo colpì alle costole e, più che sedersi, cadde di nuovo.

«Ti alzerai quando te lo dirò io».

La voce aspra e la luce ancor più aspra calmarono Jerry. Dov'era Carlotta? Non c'era più. Rimaneva soltanto il sangue.

«Dove?».

«Verso l'ospedale. Bel tentativo, amico».

«Io non...».

«Qualcuno l'ha fatto. Adesso chiudi il becco. Per il tuo bene».

Il secondo agente gli lesse i suoi diritti. Gli chiesero se capiva. Disse: «Dov'è Carlotta? Come sta?».

Infine lo fecero alzare con uno strattone. Lo spinsero, lo scortarono attraverso il soggiorno. Jerry vide la porta d'ingresso fracassata. Fuori occhieggiavano delle luci rosse. Una folla...

Un vecchio grinzoso in mutande e vestaglia lo indicò.

«Eccolo. È il suo amico!».

Un poliziotto lo tranquillizzò con la mano distesa.

«Va bene, va bene, le telefoneremo. Ora rientri a casa e vada a letto».

Jerry salì a tentoni sull'auto della polizia, cercando di scacciare la confusione che lo accecava. Ebbe la visione indistinta di occhi che spiavano attraverso il finestrino, guardandolo come se fosse una sorta di serpente raro. Infine partirono. Credette di sentire da qualcuno che Carlotta era morta.

 

Il dottor Weber si riprese dai suoi pensieri. In ciabatte si avviò lentamente verso la porta. Attraverso la spia distinse nel buio una faccia stranamente delineata dalla luce gialla. I grilli frinivano, con un suono triste e magico che rendeva la notte ancora più inquietante. Senza una parola, aprì.

«Sono spiacente», disse Gary Sneidermann, «ma...».

Weber si mise un dito sulle labbra, indicando che qualcuno stava dormendo in una parte della casa. Si avviarono svelti verso lo studio. Weber chiuse la pesante porta alle loro spalle. Sneidermann sembrava confuso, irato, ansioso. Aveva i capelli spettinati, il sudore gli colava dalla fronte e gli occhi avevano un'espressione preoccupata ed intensa. C'era silenzio, tranne che per lo scoppiettio del caminetto. Il volto di Sneidermann era alternativamente illuminato di giallo e di arancione.

«Che cosa c'è, Gary?».

«Si tratta della signora Moran».

Weber indicò un'ampia poltrona di cuoio. Il giovanotto sedette imbarazzato. Il primario stava di fronte a lui, terribilmente depresso. Aveva perduto il suo miglior interno, pensò. Ecco come stavano le cose.

«Ebbene?».

«È al pronto soccorso. Incosciente».

Corrugò la fronte.

«Che cosa è successo?».

Sneidermann alzò lo sguardo con un'espressione angosciata. Gli occhi erano arrossati, assonnati e umidi. «È ritornato il suo amico. Le ha spaccato una sedia in testa. È accusato di tentato omicidio».

Weber si diede coraggio con un goccio di brandy.

«Questo non collima con quanto sappiamo di lui».

Sneidermann inghiottì. «Ha fatto una deposizione alla polizia. Pretende di averlo visto».

«Visto che cosa?».

Sneidermann guardò lontano. Le lingue di fuoco si riflettevano nei suoi occhi spaventati.

«Non lo so... ha visto la stessa cosa che vede sempre Carlotta. Ha tentato di accopparlo e invece ha colpito lei».

Guardò di nuovo il dottor Weber.

«Come può accadere? Jerry è una persona equilibrata».

Il primario scosse il capo tristemente.

«È suggestionabile, Gary. Come Billy e le bambine. È stato influenzato da Carlotta».

Il giovane sprofondò nella poltrona, con aria imbronciata. Appoggiò la testa all'indietro.

«Non so se è morta o viva», disse stancamente.

Weber sollevò la cornetta del telefono e compose un numero.

«Pronto soccorso? Qui è il dottor Weber... Va bene... Fred? Qui è Henry. Quando hai la diagnosi di Carlotta Moran, M-O-R-A-N, chiamami, ti dispiace? Un'amica personale. Ti sarò grato».

Riagganciò. Sneidermann ringraziò col capo, pronunciando qualcosa di inintelligibile. Ora non sapeva che cosa dire.

«Era l'unico contatto che aveva con la realtà», rifletté poi a bassa voce, senza speranza.

Weber cercò un sigaro, non ne trovò e si versò un altro brandy. Sneidermann stava lottando con se stesso. Ed era perdente.

«Era il suo solo futuro», continuò, ignorando il dottor Weber.

Di colpo si raddrizzò, fissando il caminetto. Per un istante l'unico rumore furono i ceppi che mandavano faville e scoppiettavano fra gli alari.

«Prima cosa da fare, è di castrare quei due».

«Le ho detto di non lasciarsi coinvolgere».

«Adesso si tratta di vita o di morte. Se non è troppo tardi».

«Ne rimanga fuori».

Sneidermann si voltò lentamente. Di colpo la mente fredda, analitica del suo primario gli parve odiosa ed inumana. Come era possibile essere medico se privi di sentimenti?

«Non ho intenzione di rimanerne fuori, dottor Weber. Voglio quei due individui fuori dalla sua vita».

Il primario fece una pausa, col bicchiere del brandy a metà strada. Studiò Sneidermann. Poi vuotò rapidamente il bicchiere.

«Non vedo che cosa diavolo possiamo fare».

«Rivolgiamoci al preside», disse fermamente il giovane.

Weber posò lentamente il bicchiere sul tavolo di quercia.

«Accidenti, Gary... quello che lei suggerisce è un mese intero di discussioni. Non ha idea di quanto la cosa possa complicarsi».

Sneidermann si sporse in avanti e batté col dito sul tavolo accompagnando ogni parola fino al punto di scuotere il liquore nella bottiglia.

«Bisogna mettersi in contatto col dipartimento di psicologia e farli rimangiare tutto».

Weber era irritato con Sneidermann. Non gli andava di essere forzato. Men che meno da un interno.

«Tutto per questa Moran?».

«Qualcuno deve occuparsene».

«Non è detto che debba essere lei».

«Invece sì».

Weber finalmente trovò un sigaro e se lo rimise in tasca. Sneidermann lo guardava fermamente.

«Va bene», dichiarò il primario. «Presenterò il caso al preside. Mi deve un favore».

Sneidermann si appoggiò allo schienale della poltrona. Avvertì l'ebbrezza della vittoria. Tuttavia, nello studio caldo e comodo, si rese conto di quanto si fossero deteriorati i loro rapporti. Guardò il suo superiore. Era un momento di stallo. Ambedue erano emozionati. Ognuno era stranamente incapace di esprimere quanto sentiva.

«Mi dispiace di essere arrivato a questo, dottor Weber».

L'uomo più anziano fece un gesto vago.

«Beviamoci sopra, Gary. Vediamo di non essere nemici».

Prese la bottiglia e il liquore fluiva dorato, calmando le cose. Nessuno dei due parlò. Il silenzio era completo, eccetto che per lo scandire dei secondi del grande orologio a parete.

Dunque Sneidermann era preso, pensò Weber. Così umano, così assolutamente umano. Non era una macchina. Fissò il bel volto del suo interno. Per lui la vita era appena cominciata e già lo aveva preso.

Immagini affollarono la mente di Weber, immagini del passato. Un caminetto, ma non come quello, ed un locale affollato di stranieri. Era la hall di un albergo internazionale di Chicago. Delegati e psichiatri distinti calpestavano i folti tappeti, rispondendo a chiamate dei fattorini. Ospiti provenienti dall'Austria varcarono la soglia, scuotendosi la neve dalle spalle. Lui, non ancora laureato, sedeva silenzioso, imbronciato, accanto al suo docente, il dottor Bascom.

Questi era un uomo anziano, direttore della facoltà di psichiatria dell'università di Chicago. Weber era l'unico studente invitato a seguire la conferenza. Però non era autorizzato a discutere le ultime novità e relazioni del mondo scientifico. Bascom ebbe altre parole per lui.

Weber guardava oltre Sneidermann, ricordando quel giorno penoso e mezzo dimenticato. Bascom aveva parlato per parecchi minuti prima che Weber riuscisse a comprendere dove volesse arrivare. Poi capendolo, ne era rimasto confuso, infine offeso. Ne aveva provato vergogna. Il dottor Bascom stava consigliandogli di lasciare la scuola. Di prendersi una vacanza. In Europa, magari. Weber aveva fissato il fuoco di cattivo umore, proprio come ora faceva Sneidermann preoccupato, mentre il bagliore della fiamma gli illuminava il volto.

Ripensandoci, gli occhi di Weber si inumidirono. Blumberg. Bloomfeld. No. Semplicemente Bloom. Una ragazza ebrea. Gli zigomi lisci come alabastro, perfetti come delicate sculture. Il lungo pomeriggio con la ragazza dalla pelle trasparente, i profondi, profondissimi occhi neri e la mente brillante così vicina alla schizofrenia. Weber inghiottì e si portò il bicchiere alle labbra.

Il dottor Bascom aveva ragione. Henry Weber era coinvolto. Più bizzarramente che in un romanzo. Non era amore, non era il nulla sentimentale di cui si legge. Era una fissazione, la coscienza dell'esistenza nella quale lei bruciava come una stella e per cui lui, impotente, era divenuto un pianeta che le girava eternamente intorno. Eppure non l'aveva mai toccata. Per quasi un anno la sua vita si era sciolta nel circolo luminoso dell'ansietà e del terrore, mentre i profondi occhi neri imploravano il suo aiuto, sempre più vicini, come una falena si accosta alla fiamma, finché il vecchio aveva scoperto che cosa fosse accaduto.

Il dottor Weber si soffiò adagio il naso nel fazzoletto. Una ragazza bella così non l'aveva mai vista, né prima né dopo. Avrebbe potuto felicemente trascorrere tutta la vita con lei. Una malata è un essere umano, ma di un ordine differente. Il dottor Bascom aveva fissata una chiara scelta. O la carriera in psichiatria o la vita intera accanto alla paziente. Naturalmente non c'era alternativa. Due settimane dopo, Weber era partito per l'Europa. Vi era rimasto sei mesi e, una volta ritornato, aveva saputo che lei era stata internata nella clinica di Wingdale, nello stato di New York. Molti anni più tardi, era stato tentato di vederla, ma...

«Rachel», sussurrò Weber. «Ecco come si chiamava».

«Prego, sir?».

«Come? Oh... nulla... un caso che mi ha ricordato quello di Carlotta».

Il telefono squillò.

«Sì?... Bene. Capisco... No... ho fiducia in te. Sono certo che hai ragione. Naturalmente. Grazie, Fred. Molto gentile da parte tua».

Riappese.

«Frattura lineare alla fronte. Alcune schegge di legno sono conficcate nel cuoio capelluto. Commozione cerebrale. Nessun danno al cervello e nessun embolo. Buone condizioni».

Sneidermann fu incapace di parlare. Gli occhi gli si erano inaspettatamente inumiditi. Forse era l'ora tarda, il brandy, la tensione nell'attesa di certe parole, oppure soltanto l'agitazione della notte.

«Ebbene», commentò poi con voce roca, «è stata fortunata».

Weber finì il brandy. Offrì a Sneidermann un secondo bicchiere, ma questi scosse il capo.

«Grazie davvero, dottore. Sinceramente».

«Ma non seguirà il mio consiglio?».

«No».

Weber scorse il fuoco negli occhi del giovane. Quanto era umano, pensò tristemente. Prigioniero del cuore invece che della mente. Un impeto di comprensione affluì nei suoi sentimenti verso Sneidermann.

«Ebbene, non si sa mai», commentò, alzandosi. «Potrebbe essere interessante. Trenta anni orsono ero un autentico radicale. Sarà proprio come ai vecchi tempi: sollevare un inferno contro i rettori.

 

20

 

All'ospedale, Carlotta aprì gli occhi. Il soffitto bianco che le incombeva sul capo parve ondeggiare. Voci galleggiavano nell'aria. Strane luci si accendevano e si spegnevano. Credette di vedere Joe Mehan curvo su di lei.

«Mrs. Moran», sussurrò questi.

Lei mosse le labbra, ma non ne uscì parola. Mehan si accostò maggiormente, poi, esitante, tirò a sé una sedia.

«Mi permettono di rimanere soltanto cinque minuti», disse sottovoce.

Carlotta lo guardò attentamente. Mehan cessò di ondeggiare davanti a lei. Era vestito ordinatamente, appropriatamente e persino elegantemente. Lei cercò di parlare, ma sentì la lingua gonfia e come stopposa.

«Jerry», sussurrò.

Mehan inghiottì.

«È in prigione».

«Jerry», ripeté lei.

Immagini indistinte, ricordi nebulosi divennero più percettibili. Jerry galleggiava in una foschia verde, mentre sollevava la sedia.

«Dov'è?».

«È stato accusato di tentato omicidio».

Carlotta sprofondò nel guanciale. Mehan la guardò nel profondo degli occhi. Mai li aveva visti così neri, così spalancati per l'orrore di qualche cosa che poteva soltanto intuire.

«Mrs. Moran», sussurrò. «Che cosa è accaduto?».

Carlotta si voltò, lo guardò con gli occhi annebbiati e perduti.

«Ho bisogno di sapere che cosa è accaduto», insistette lui sottovoce. «Se ha qualcosa a che fare con...».

Carlotta allontanò lo sguardo, come distraendosi, cadendo nel sonno.

«Mrs. Moran?».

Mehan si chinò in avanti. Il volto della donna sembrava più bianco del lenzuolo, più bianco delle luci distanti.

«Jerry...» poi balbettò qualcosa di inintelligibile.